CULTURA E TRADIZIONE DEL VINO A VINCI
Le feste dell’uva e del vino
La storia
del vino di Vinci è antica, al pari di altre realtà vitivinicole toscane
importanti, seppure non molto conosciuta e apprezzata, a causa anche di una
colpevole dimenticanza talvolta imputabile agli stessi vinciaresi (come
venivano definiti negli statuti quattrocenteschi gli abitanti di Vinci).
Non v’è
dubbio che il recente secondo dopoguerra vinciano sia stato caratterizzato da
una crescente industrializzazione del territorio che ha comportato
inevitabilmente uno spopolamento delle vecchie frazioni e dei borghi rurali,
soprattutto collinari, con l’abbandono di molte tradizioni contadine. Con
l’inizio del nuovo millennio e la crisi dell’industria, soprattutto dei settori
tessile e manufatturiero, che avevano monopolizzato le attivitá economiche
degli anni sessanta e settanta, si sono sviluppate, anche a Vinci, nuove forme
di turismo enogastronomico, sulla scia di quanto era avvenuto, circa una
ventina di anni prima, in altre realtà del circondario dell’Empolese Valdelsa,
ai “confini” naturalmente di quel turismo “mordi e fuggi”, prettamente legato
al mito di Leonardo, con oltre 150.000 presenze all’anno (2006).
Grazie a
nuove “leve” di studiosi locali si è in qualche modo “riscoperta” l’antica
vocazione prettamente agricola del luogo, con la ricerca e la valorizzazione
dei luoghi, delle tradizioni, delle storie e leggende legate alla cultura e
alla tradizione della terra, da sempre in veritá legata - come altra eccellenza
- alla produzione dell’olio di oliva (1).
Al di lá di
Leonardo e delle memorie vinciane, Vinci rimane quindi un borgo ancora da
scoprire, fatto di innumerevoli antiche cantine sotterranee, dalla galleria
ottocentesca della Fattoria dei Masetti, oggi sede del Museo Ideale Leonardo da
Vinci, alla cantina del Castello di Vinci, alle molte cantine “private” del
centro storico, in disuso e abbandonate, agli anfratti e cavitá naturali
presenti nella campagna vicina, in cui i contadini erano soliti conservare il
vino e gli altri prodotti, cosí come raccontano le persone piú anziane , oggi
purtroppo nascosti da rigogliosa
vegetazione,.
Di tutto
ció, con la presente nota si vuole fare un piccolo sunto, senza velleità
accademiche, mettendo ordine ai dati scientifici e ai vari spunti tratti dalla
memoria e tradizione dei contadini del posto.
Bisogna
quindi partire in questo viaggio verso Vinci, a ritroso nel tempo, dal periodo
etrusco e romano, dal quale secondo alcuni studiosi deriva non solo un
paesaggio agrario centuriato, ma addirittura il nome di diverse località (
Verella potrebbe tramandare il nome di una potente famiglia etrusca) e, per
alcuni, anche del capoluogo dal latino Fondus Vinicii, cioè possedimenti
della famiglia romana Vinicia (2). In assenza di notizie e riscontri certi,
dobbiamo ricordare la stele romana di Dianella (dove peraltro veniva
individuato dagli studiosi il tratto di un decumano romano), con la raffigurazione di viti e grappoli ed una
epigrafe della gens Gavia, come una suggestione importante (3) ed, in qualche
modo, un indizio della presenza di una produzione vitinicola sul Montalbano,
seppure le testimonianze piú concrete di tale periodo si hanno sul versante
pratese.
A Vinci,
invece, le prime tracce di una importante e qualitativamente buona produzione
di vino si ricavano in atti del XIII secolo.
Nel
contratto di vendita con il quale Guido Guerra e Ruggero, figli di Marcovaldo,
Conte Palatino di Toscana vendono al Comune di Firenze la loro quarta parte dei
castelli e corti di Vinci e Cerreto, si indica il “ vino “ quale rendita
feudale dei poderi di Vinci ( i quali dovranno dare in frutto ogni anno “unum
barile boni fini” (4) Una conferma
indiretta si ricava dalla corrispondenza dei vescovi di Pistoia, nella
cui diocesi ancora si trova la parte collinare del Comune, che richiedevano per
la loro mensa il vino di Vinci.
Piú tardi, il Comune di Firenze acquisito e
consolidato il proprio potere sul territorio vinciano, dopo le ben note vicende
e i vari tentativi interni ed esterni alla Comunitá avverso la dominante
fiorentina per tutto il XIV, all’inizio del secolo successivo pone in essere un
vero e proprio regolamento sulla coltivazione, produzione e vendita del vino di
Vinci, garantendosi indirettamente anche un adeguato approvvigionamento per Firenze.
In veritá, la posizione geografica di Vinci e la sua vicinanza all’Arno
avrebbero consentito uno smercio di tale prodotto anche verso Pisa, circostanza
che avrebbe indotto piú tardi addirittura un intervento granducale ad inibire
tale possibilitá.
Lo Statuto del Comune di Vinci del 1418, pur richiamandosi agli schemi presenti in
altre realtà del contado fiorentino (5) si caratterizza rispetto ad altri peraltro per una serie di
disposizioni legate proprio alla vita e alle attivitá quotidiane dei campi (6), segno di una piccola e vivace comunitá
rurale, dove veniva svolto sia l’allevamento del bestiame, in particolare dei
suini, che la coltivazione dei campi, in questo caso con una evidente
predominanza della viticoltura, stante anche il rigido e articolato
disciplinare imposto dalla dominante fiorentina (7). Le norme previste relative
all’attivitá vitivinicola sono numerose, distinguendosi in due tipologie:
quelle prettamente legate allo svolgimento dell’attivitá agricola rispetto alle
altre destinate alla regolamentazione della produzione, vendita e consumo del
vino nell’ambito del Comune.
Appartengono alla prima specie le norme
che concernono la tutela e la salvaguardia delle colture.
In particolare, dal mese di marzo al mese di
settembre, le bestie “pecorina
caprina o di qualsivoglia generatione”
dovevano essere tenute dai loro proprietari lontane dalle vigne altrui (rubrica
66). Lo stesso Statuto prevedeva peraltro delle zone di assoluta interdizione
con nomi di localitá ancora oggi familiari e conosciute per una coltura
intensiva a vigneti, dalle vie del rio di Streda al rio del Vincio, oppure dal
Valico di Linari fino alla punta di Campo Zeppi. Nello statuto del secolo
successivo (1564), i nomi e le località sono addirittura ancora piú dettagliati
e corrispondenti ancora oggi ai nomi degli attuali poderi e di molte famiglie
del luogo ( campo di Lorenzo Bracci detto Campagliana, Capannile, Quaialti,
Casiloste).
Analoga disposizione, anche se limitata alla
zona del Castello e limitrofe, era prevista per il divieto di circolazione dei
porci, in quel caso l’interdizione andava dalla festa di San Michele di maggio
a quella di settembre (rubrica 60) destinata piú ad esigenze di igiene pubblica
che di tutela della coltivazione.
I vigneti oltre che dagli animali dovevano
essere salvaguardati dagli uomini: viene infatti applicata una sanzione a tutti
coloro che “ardiscano” a recare danno
in “alcuna vigna piena di uva”. La norma è particolare in quanto la
soggettivitá passiva della norma penale decorreva all’epoca dall’etá dei sette
anni, quindi anche i bambini trovati a “rovistare” nelle vigne o comunque in un
orto o in un frutteto potevano essere puniti, rientrando peraltro tale giudizio
nelle limitate competenza penali del potestá vinciano. Se i suddetti “danni”
venivano commessi in orario notturno si applicava addirittura l’aggravante del
raddoppio della pena.
Allo stesso modo veniva punita la
sottrazione di pali o altri legnami dalla vigne ( Leonardo li avrebbe chiamati
“bronconi” come in una sua famosa annotazione), anche
senza uva, con l’obbligo naturalmente di risarcire la vittima. Peraltro la
dimostrazione e prova dei suddetti reati da parte della guardia ( detta anche
campaio) e del notaio dei danni dati era molto facilitata in quanto era sufficiente la presenza di un
solo testimone (rubrica 62).
Nella secondo tipologia di norme di tutela e
salvaguardia rientrano quelle relative al disciplinare imposto dalla
dominate fiorentina relativo alla produzione vitivinicola.
Il Comune sovrintendeva a tale compito per
il tramite dei Capitani e del Consiglio dei XII, i quali avevano il potere di
scegliere e stabilire i tempi della vendemmia, anno per anno, con la
conseguente sanzione per chi veniva scoperto a vendemmiare prima del termine.
Con lo Statuto del 1564 il termine veniva fissato in modo rigido alle Calende
di Settembre, ovvero nella prima quindicina del mese (in altri luoghi, sempre
per via statutaria, veniva considerato il dí di San Matteo, ovvero il 21
settembre (8).
L’autoritá predisposta a regolamentare e
disciplinare la vendita del vino di Vinci erano invece i Governatori della
gabella del vino (rubrica 42), quattro “buoni uomini” nominati dai
Capitani e dal Consiglio dei XII i quali, unitamente al Notaio, provvedevano a
segnare, gabellare e coprire le botti e i barili di chi chiedesse di vendere
vino. Al fine che il Comune non venisse “ingannato nelle sue ragioni”,
si chiedeva per la vendita al minuto del vino il pagamento di una adeguata
gabella, se del caso previo appropriata
mallevadoria, approvata dai suddetti Governatori. Peraltro a chi avesse ardito
sfuggire a tale tassa sarebbero state comminate sanzioni direttamente
proporzionali al numero dei barili di vino venduti fuori legge o comunque in
occulto (rubrica 65).
Al fine
di “frenare le malizie
degli uomini”, naturalmente ogni
cosa che potesse essere venduta previa una misura o pesatura doveva essere misurata o pesata con pesi e misure con il “suggello” del Comune di Firenze, compreso il vino ( rubr. 52 sui vinattieri),
per il quale erano previste le seguenti misure: quartuccio terzeruola mezzetto,
terziere, metá della mezzo quarto e quarto. Naturalmente la cura delle suddette
misure era compito del notaio, il quale aveva anche l’obbligo di ricomperarle
in caso di loro rottura.
Era assolutamente vietata la rivendita del
vino (rubr. 72), che una volta acquistato poteva essere infiascato e fattone
uso proprio e familiare. Al pari della macellazione delle carni, si prevedevano
agevolazioni nel pagamento della gabella e nel consumo in occasione delle feste
dei popoli, di solito individuati con il nome di un santo, oppure in occasione
dei matrimoni.
Gli statutari quattrocenteschi tentavano
tuttavia di “morigerare” il consumo del vino, soprattutto in particolari
occasioni della vita umana, con fini naturalmente di prevenzione nelle
commissione di altri reati. In questi casi veniva punito sia chi vendeva sia
chi consumava vino. Gli statutari stabilivano infatti che chi vendesse vino al
minuto “ardisca o presuma ritenere gioco vietato” sulla base degli Statuti ( in
pratica tutti quelli per i quali “pecunia” o altra cosa si possa vincere o
perdere, ad eccetto del gioco degli scacchi, palla morello o palloctolo, erano
naturalmente immuni i cittadini di Firenze) veniva sanzionato, allo stesso modo
dei giocatori che ne facessero godimento, per i quali addirittura il venditore
veniva considerato mallevadore, per cui se il giocatore non avesse provveduto
al pagamento della sanzione vi era tenuto lo stesso oste (rubrica 13). Per provare il fatto era sufficiente alla
guardia ed al notaio un solo testimone “degno” per il quale veniva tenuto
segreto il nome. Si trattava, nella specie, di una norma chiaramente di ordine
pubblico, come evidenzia l’intestazione della rubrica “ Sulla pena di chi giuoca a zara”, in quanto il gioco dei dadi molto spesso
era foriero di risse, zuffe e bestemmie. Il gioco di azzardo correlato all’uso
del vino si perde nella normazione dello statuto cinquecentesco, seppure siano
vietati nuovi giochi. Tuttavia la correlazione uso del vino e gioco di azzardo
è contenuta in molti aforismi e appartiene alla tradizione popolare come
dimostrano antiche citazioni (Ragazzo
prendi vino e dadi. Che il domani cerchi la sua salvezza! La morte, tirandoti
l’orecchio, grida: Goditi la vita: io giungo!: Virgilio 70 –19 a.c).
Anche la piú famosa e quindi studiata
famiglia vinciarese del tempo, i Da Vinci, svolgevano una prevalente
attivitá vitivinicola. Al di lá della suggestione del loro cognome,
derivante probabilmente dal “vincus” (il vinco albero dei “salci”) (9) ovvero
quel salice purpereo da cui vengono tratti i salci utilizzati, ancora oggi, per
legare le viti e che caratterizzano tutto il paesaggio vinciano, soprattutto
nel periodo autunnale; gli stessi componenti della famiglia , come ser Antonio
Da Vinci, nonno di Leonardo, non disdegnavano di lavorare “di propria mano”
vigneti adiacenti al fossato di Vinci e comunque di possedere terreni vitati
alla Costareccia, nel popolo di Orbignano, e lungo lo Streda in località
Linari, nei pressi dell’attuale zona denominata Mercatale (1451). Gli stessi
terreni, seppure quello della Costareccia denominato Colombaia, toponimo ancora presente e caratteristico
del posto (cfr. Catasto Leopoldino del 1821), in quanto si tratta di uno dei
pochi terreni vitati a terrazza, ancora presenti nel Comune, si ritrovano nella
portata del catasto del 1498 di Francesco d’Antonio Da Vinci ( zio di Leonardo,
peraltro nominato suo erede). Il padre di Leonardo, Ser Piero, infine possedeva
terreni, grazie anche alla parentela con la famiglia Zoso, in quel di
Bacchereto, nel podere ancora oggi conosciuto come Toia. (10). Infine un
fratello di Leonardo, il minore di una nutrita schiera di Da Vinci, Giovanni,
condusse l’osteria nella piazza del Mercatale di Vinci svolgendo pertanto
l’attivitá di vinattiere e beccaio (11).
Anche dalla parte della madre naturale, la
Caterina, accasata a quel personaggio soprannominato Accattabrighe, soldato di
ventura riconvertito in coltivatore di terra in seguito al matrimonio, è ormai nota la produzione di barili di
vino, in terreni posti nel popolo di San Pantaleo di Vinci, in località
ancora oggi denominata Campo Zeppi (12).
Lo stesso Leonardo da Vinci del resto
produceva vino addirittura in quel di Milano, sfruttando le conoscenze ed
esperienze maturate nella sua famiglia toscana. Tutto ció grazie alla donazione
di Ludovico il Moro di un terreno vitato a Porta Vercellina ( con atto datato
26.4.1499), che doveva peraltro costituire il primo presupposto per ottenere la
cittadinanza di Milano. Tale possedimento leonardiano viene ricordato per varie
liti giudiziarie con i confinanti e successivamente nella disposizione
ereditaria in favore dei suoi allievi e servitori. Tale vigneto di Leonardo
risultava visibile fino agli anni quaranta del scorso secolo , presso la Casa
degli Atellani (13)
Di
tale passione enologica, si hanno altri innumerevoli indizi, come dimostrano le
note sulle vigne di Vigevano del 1494 oppure le note sul modo dei
contadini romagnoli di appendere l’uva per conservarla di inverno, come
aveva modo di descrivere nel 1502, mentre passava in quei luoghi come ingegnere
di Cesare Borgia. Nelle sue annotazioni e nella sua corrispondenza, peraltro,
si evidenzia l’uso del vino durante i pasti, come dimostrano le liste della
spesa oppure risaltano per la loro fantasia gli studi per suggestive fontane
da tavola per acqua e vino. La buona conoscenza ed abilitá nella
coltivazione della vite e nella produzione e degustazione del vino, un
antesignano degli attuali sommelier, seppure con alcune personali punte di
rammarico, si evince nella lettera del 9.10.1515 inviata da Leonardo al suo
amministratore dei possedimenti a Vinci, con la quale si lamentava della
qualitá delle quattro caraffe di vino inviategli e provenienti dalle
ereditate vigne di Fiesole, sottolineandone i difetti e mostrando nozioni di
agraria ed enologia eccezionali per l’epoca. La tradizione vorrebbe che quelle
caraffe siano state inviate per allietare l’ultimo banchetto italiano del
Maestro prima di trasferirsi definitivamente in Francia, in qualche modo
l’ultimo spregio dei fratelli minori Da Vinci (14).
Tornando invece al paese natale, dove alcuni
fratelli di Leonardo continuavano a vivere e produrre vino, secondo la
ricordata tradizione familiare (in particolare l’”amatissimo” fratello Domenico,
che risultava accasarsi in quella Costareccia, giá posseduta dallo zio
Francesco, e dove l’ultimo ramo della famiglia in Vinci risiedeva fino alla
metá del XIX secolo (15)), il vino
rimaneva fra i prodotti di qualitá e di eccellenza per il territorio fino al
secolo scorso.
Tutto ció è dimostrato dai continui rapporti
e legami con il territorio dei governanti e storiche famiglie fiorentine, dai
potenti Ridolfi, poi per successione ereditaria Masetti Da Bagnano nella zona
del Ferrale e oltre; ai Bracci in Vinci, agli Albizi poi Alessandri in quel di
Petroio, ai Federighi “da Sovigliana” a Dianella, confusi talvolta con i Medici
per via di uno stemma assai simile, seppure con otto “palle” ovvero due in piú
rispetto a quella della famiglia Medici (16), che comunque aveva possedimenti
in Calappiano, ai Della Gherardesca, in zona San Pantaleo oppure agli Strozzi e
rami cadetti, in Grappa, con appezzamenti e poderi, molti condotti a mezzadria,
fino agli ultimi anni sessanta.
Il vino di Vinci pertanto ha allietato,
oltre alle tavole della gente del posto, le mense di nobili e signori
cittadini, che tramite i loro poderi, dai nomi antichissimi, si garantivano un
costante approvvigionamento.
A titolo di esempio, perché si tratta dei
piú illustri, Cosimo de’ Medici, a calendimaggio, risultava prendere dai
colli di Collegonzi “lo squisito
nettare per le sue gioconde libagioni”, come ricorda la lapide del Vino di Collegonzi. Il Granduca di Toscana interveniva
con proprio bando del 1637 al fine di evitare la dispersione del vino vermiglio
della Podesteria di Vinci e di Cerreto verso le zone di Pisa e Livorno. Stemmi
lorensi adornano alcune carte del XVIII secolo della Fattoria di Calappiano,
oggi denominata “degli Inglesi”, peraltro giá “casino di caccia” dei Medici (17),
la cui storia si intreccia con quella della piú conosciuta Fattoria di Artimino
(18).
Di tale importante e apprezzata produzione
vitivinicola di Vinci ne parla il Renato Fucini, che dopo avere
soggiornato nel paese, dove il padre era medico condotto, visse i suoi
ultimi giorni nella ricordata Villa di
Dianella. I Fucini che immigrarono a Vinci dalla Maremma toscana furono indubbi
“benemeriti dell’agricoltura, in
modo particolare della vite. Famose le vigne e le Cantine di Dianella e di
Mercatale, quest’ultima sede successivamente di un altro ramo della famiglia”
(19), collegate fra loro dal
cosiddetto “viottolo del poggione”, come ricorda il bisnipote dello
scrittore, “A Dianella io, bambino e ragazzo, ho vissuto molte vendemmie – di
quelle irripetibili con carri rossi colmi di bigonce tirati da bovi bianchi
giganti ed era tutto un andare e tornare per il viottolo del poggione a trovare
gli altri … che stando a Mercatale, si chiamavano Mercatilini” (20).
Anche Telemaco Signorini e Gustavo
Uzielli nelle loro note di viaggio nel 1872 alla ricerca degli ultimi eredi
dei Da Vinci tornano a parlare di “vini buoni” e “piacevoli” del luogo, alcuni
dei quali assaggiati dritti nel podere della Costareccia, giá dei Da Vinci
(21), come nelle cantine del Ferrale, dove il vino veniva “ estratto dai tini
forando della cera che viene adoperata in modo ingegnoso per stappare e
ritappare le botti”.
Telemaco
Signorini, Vinci
Il
buon vino di Vinci era senza dubbio molto apprezzato dagli artisti e
intellettuali fiorentini del XIX secolo e si ricordano in lettere e scritti le molte “ribotte” di quella “specie di congrega di spiriti bizzarri”, costituita da Diego Martelli, il Collodi, i pittori Telemaco
Signorini e Michele Rapisardi, i fratelli Icilio e Torquato Bacci, Guglielmo
Sambalino, ufficiale garibaldino, che amavano radunarsi in Vinci “nella lieta compagnia dei Martelli
(Federigo, Luigi e Roberto), con un fiasco di buon vino e una schiodata di
uccelli o una tegamata di pappardella alle lepre”, con le quali si poteva stare bene una settimana (22).
Vittima “illustre”di un Bacco vinciano, nel corso di tali
incontri, fu lo stesso Signorini che ritornato a Vinci, affascinato dal luogo
tanto da andare in cerca di un quartierino
nel “piano della Madonna”, finiva con il vincere la noia di una giornata
nebbiosa rifugiandosi nel dolce piacere del vino, tanto che “ con una leggiera tinta di sbornia entrai
la sera nelle mura di Vinci disposto a fare un fottio degno dei Bacci e della
società del Buonladrino” (23).
Signorini insieme ad altri macchiaioli,
Eugenio Cecconi e Vittorio Corcos, si ritrovavano anche nel salotto di Villa Dianella del sor Renato Fucini,
lasciando molti ricordi “pittorici” del loro passaggio (24).
Ebbene la produzione vitivinicola ha sempre
costituito una delle attivitá prevalenti del territorio di Vinci,
caratterizzando gli usi, costumi e le tradizioni della gente di Vinci, alcune
delle quali si sono tramandate fino ad oggi, nonostante la forzosa
riconversione dei tempi e modi di vivere della tipica famiglia contadina in
seguito alle recenti trasformazioni dell’economia vinciana.
Al ciclo della vite e del vino sono
collegati modi di dire, proverbi ed aforismi, nonché tipiche feste locali nelle
quali il vino assume un ruolo protagonista.
Fra le feste vinciaresi piú antiche si
ricorda il Volo di Cecco Santi, divenuta nel corso del tempo una specie
di “ordalia” legata al vino di Vinci.
Cecco Santi è un soldato di ventura
condannato a morte, dopo un sommario processo. La pena capitale viene eseguita
mediante il “lancio” dalla torre, dalla quale il condannato riesce tuttavia
miracolosamente a salvarsi. Il prodigio viene tradizionalmente attribuito dalla
gente di Vinci al “vino” del posto, che in quantità copiosa il condannato aveva
chiesto di bere prima dell’esecuzione, naturalmente in mezzo agli sberleffi e
lazzi del popolo, al grido di “Bei Cecco…!!! “.
La festa chiaramente assume ancora oggi toni
del tutto goliardici.
Nelle vecchie edizioni ottocentesche
al famigerato fantoccio, che veniva lasciato “scivolare” su una corda, anziché
cadere come ai giorni nostri, venivano addirittura attaccati un gatto e un
cane, i quali per la nota amicizia che regna fra le due razze, comunicavano un
moto convulsivo e rotatorio alle gambe di stoppa di Cecco Santi, con “gioia universale dei ragazzi di Vinci e con
l’ammirazione di tutto il pubblico”,
cosí come raccontano le cronache del tempo.
La tradizione di Cecco Santi è antichissima
e condivisa con altri paesi della Toscana (anche se talvolta il fantoccio assume un nome diverso), seppure a
Vinci rivesta aspetti inediti e originali, aggiunti nel corso del tempo, come
il “tradimento per amore “del capitano di ventura in favore del vicino popolo
di Cerreto Guidi, aneddoto ispirato alle lotte fra guelfi e ghibellini che
hanno caratterizzato la storia del castello di Vinci nella prima parte del
trecento e, piú recentemente, nello spirito naturalmente goliardico dei giovani
del posto, accesi derby calcistici fra i due paesi confinanti. Tali storie,
antiche e recenti, vengono introdotte in veritá solo con l’ultima riedizione
della manifestazione del 1991 (la manifestazione era stata inopinatamente
sospesa dal secondo dopoguerra), probabilmente per esigenze scenografiche e
sulla scia di altre e diverse leggende paesane, con particolare riguardo alla
storica rivalitá fra Vinci e Cerreto, costretti per secoli a dividersi
addirittura una Podesteria ( dal 1424 fino all’accorpamento di Vinci nell’altra
nel 1774) , con “banchi”, uffici e cancelleria contesi fra l’una e l’altra
cittá.
L’origine della storia del “soldato di
ventura” si perde tuttavia nella notte dei tempi e viene tramandata a Vinci
soprattutto con i ricordi della gente, legati molto spesso ai vari personaggi
del paese ( il “Canapa”, venditore di “semili”, come vengono definiti nel gergo
vinciarese i soffici panini da inzuppo, per esempio, è stato uno dei maggiori
protagonisti del Cecco Santi novecentesco) e alle famose libagioni di vino al
grido di “Bei Cecco….”, diventato anche un modo di dire, in parte sicuramente
da riferirsi ad una “leggenda” tutta locale e risalente ad un episodio
storicamente accertato del 1861.
Il giorno vocato a Cecco Santi,
infatti, era ovunque e per tradizione
la festa del Corpus Domini e dal suo volo la gente traeva gli auspici per il
raccolto e attendeva fiduciosa il suo arrivo a terra, perché a toccarlo – si
diceva - portava fortuna. Tale rituale
del volo, in contemporanea con la festa del Corpus Domini, con gli auspici e
l’assalto finale della gente fanno inevitabilmente ricordare ed assimilare la
manifestazione allo storico volo del ciuco di Empoli, risalente al 1397.
La memoria di Cecco Santo, seppure antica, è
probabilmente piú recente. Si ricorda per la prima volta di un memorabile
volo nel 1762 avvenuto in quel di Lechore, oggi Lecore in Comune di Signa,
dove il volo si è svolto ininterrottamente fino ad oggi, anche durante il
periodo bellico (con divertimento si dice dei soldati tedeschi), seppure non
piú dall’inagibile torre quattrocentesca e in una data successiva, in coincidenza
con la festa dei Santi Pietro e Paolo (25).
Il volo di Cecco Santi, a Vinci, ha assunto
una propria autonoma leggenda popolare, peraltro legandola
indissolubilmente al “vino di Vinci”,
il 26 maggio 1861, festa della Santa Trinità, con la vicenda umana di
Millo, cosí come viene riportata dalla tradizione orale popolare.
Il fatto viene tuttavia ripreso nelle
cronache locali, trascritto nel 1872 dall’Uzielli e dal Signorini nelle celebri
note di viaggio (i quali accomunano la manifestazione, “per bocca” di un
ragazzo vinciano, allo storico volo di Empoli); reinterpretato dal Fucini in un
suo racconto con qualche risvolto patriottico (per cui Millo “adoratore di
Bacco” sarebbe caduto mentre andava a sventolare il tricolare sabaudo, dopo la
partenza dell’ultimo Granduca (26)); di nuovo annotato dallo storico priore di
Santa Lucia nei primi del novecento, don Quirino Giani (27), che riporta
l’episodio occorso in occasione del Volo di Cecco Santi del 1861.
Secondo questa ultima versione un certo
Filippo Fabbrizzi, soprannominato Millo, “ un fabbro lungo lungo, magro allampanato e bevitore impenitente “ ,
che per l’occasione svolgeva la funzione di “campanaio” in su la torre
di Vinci ( questo secondo il Signorini, che ne faceva anche un piccolo
disegno), ormai ubriaco a causa delle soverchie libagioni di vino offerte al
fantoccio, ma da lui consumate,
precipitava al di sotto del cassero, sfondava il tetto di una camera e
per la botola di essa andava a finire, ruzzolando, nella cucina sottostante di
un certo Bruschino, giacente infermo in una piccola camera, ove Millo pressoché
illeso dal volo fece cosí stranamente il suo ingresso.
La gente gridó al miracolo e volle
addirittura che ne fosse perpetuata la memoria in un quadretto ad olio ex voto
per l’altare del SS. Crocefisso, ancora conservato nella Chiesa propositura di
Vinci.
“ I
men credenti “ - conclude don Quirino – affermarono che l’ampia camicia di Millo,
gonfiatosi a piú non posso durante la caduta, lo salvó da certa morte,
funzionando mirabilmente da paracadute” (28).
I piú burloni invece hanno tramandato e
attribuito la sua salvezza all’indubbia forza salvifica del vino di Vinci,
grazie al quale il protagonista Cecco – Millo, come in una sorta di supremo
giudizio divino, dopo quello funesto e goliardico degli uomini, riusciva a
scampare da una rovinosa fine.
Dal 1991, perduto ormai il vecchio fantoccio
da soldato di ventura vestito – si ricorda – con i colori bianco, rosso e blue,
conservato prima dei restauri degli anni sessanta presso le vecchie scuole
elementari di Vinci, Cecco Santi è
tornato a volare a Vinci con una inedita “veste medievale e ghibellina” e dalla
parte opposta del castello, per finire nella forra anziché nella piazza del
Mercatale, in occasione del “fierino”, ovvero il mercoledì seguente all’ultimo
martedì del mese di luglio. In pratica il giorno successivo a quello che per
tradizione viene considerato il giorno della Fiera di Vinci, che risale
addirittura al 1832 seppure in origine, al pari della fiera di Vitolini (29),
legate prevalentemente alla mostra delle bestie e dei vitelli, in particolare
del “vitello grasso” ovvero quei
“bovini da ingrasso” che sono stati per secoli e fino agli anni cinquanta -
ormai non piú - una peculiaritá del Montalbano (30). Anche questo probabilmente
è un segno dei tempi che cambiano e dei profondi mutamenti economici e sociali
avvenuti nella società di Vinci, dal 1960 in poi.
Legate
invece alla tradizione e cultura della terra sono le feste dell’uva e
del vino di Vinci, che si sono svolte fin dai primi decenni del novecento,
abbandonate e riprese, piú volte, con alterne sorti e vicende in questi anni.
In effetti, nel periodo fra le due guerre
alcuni proprietari per meglio vendere e promuovere il loro vino ( la prima
guida del TCI che ricorda la tradizione
del vino di Vinci è del 1931 (31)), iniziavano ad organizzare delle feste
dell’uva, sulla falsariga di quanto avveniva del resto in altri paesi ( fra le
meno recenti si ricorda la Festa dell’uva dell’Impruneta del 1926), con dei carri
addobbati e ispirati alla vendemmia, trainati da bovi, che trasportavano
persone vestite da contadino che a squarciagola intonavano canti popolari, come
il famoso “canto della vendemmia” o del
trescone oppure il canto de “Le tre sorelle”, che alcuni testi addirittura
attribuiscono come origine alla zona del Valdarno inferiore, accompagnati a
stornelli, rispetti e poesie, potendo Vinci contare anche su famosi poeti in
ottava rima (il Masi di Vinci è stato
piú volte ricordato da Roberto Benigni nella sua autobiografia come rimatore
finissimo nella Casa del Popolo di Vergaio e suo “illustre” maestro ).
Grazie ad alcuni fondi e archivi fotografici
privati sono giunte a noi le immagini dei carri vincitori delle edizioni del
1934 (il Carro di Sant’Amato) o partecipanti ad altre edizioni ( Carro del
Montalbano Classico, il Carro de’ Baronti e il Carro di Beneventi del 1937),
alcune giá pubblicate ma per la gran parte ancora inedite.
Carro de’ Baronti, Vinci 1937
Carro di Beneventi, Vinci 1937
Le feste dell’uva e del vino, come in genere
degli altri prodotti della terra di Vinci, naturalmente, non potevano che
essere comunque legate al nome di Leonardo.
Nel 1939, anno del “mito italico del genio di Leonardo”, le manifestazioni
leonardiane vennero svolte a Milano con tuttavia dei “pellegrinaggi
nazionali” a Vinci, dove venivano
organizzate per gli ospiti e i locali una serie di iniziative collaterali
(agosto –settembre) legate proprio alla mostra dei prodotti ( vino Chianti
Montalbano e Olio di Oliva) e alle attivitá ( cosí specificate “cappelli di paglia, ricami e attrezzi vari”) del Montalbano, con la progettazione di
un padiglione “ Carpe Diem” in stile razionalista per gli assaggi e le
degustazioni, il concerto della banda del Dopolavoro di Vinci, una gara fra i
due piú famosi poeti estemporanei (a soggetto libero e obbligato) e i
tradizionali “fochi” dell’Ulivelli, la famosa fabbrica locale di fuochi di
artificio.
Vinci, Stand
del 1939
La seconda guerra mondiale bloccó tutto
quanto.
La successiva ripresa economica e
promozionale dell’immagine del paese e dei prodotti di Vinci aveva comunque
avanti a sé una data storica ed imperdibile, il 1952, ovvero il quinto
centenario della nascita di Leonardo.
Le manifestazioni leonardiane ebbero un’eco
incredibile, grazie alla visita di
Luigi Enaudi e Alcide De Gasperi, Presidenti rispettivamente della Repubblica e
del Consiglio dei ministri,come ricordano le cronache e le fotografie del
tempo.
Vinci, 500 anniversario nascita Leonardo,
Palco d’onore
La Piazza
di Vinci del 1952
A margine venne ripresa negli stessi anni
cinquanta anche l’idea di un vera e propria mostra del vino di Vinci,
con stand realizzati dai maggiori
produttori del luogo presso la Piazza della Libertá. Sulla stessa falsariga,
nel circondario dell’Empolese Valdelsa, nasceva nel 1957 la festa del vino a
Montespertoli, quest’anno giunta alla cinquantesima edizione, mentre bisognava
attendere, per esempio, addirittura il 1969 per il Toscanello di Pontassieve e
il 1973 per quella di Cerreto Guidi, da quest’anno denominata Medicea.
Vinci, Mostra del
Vino,anni‘50
Dopo un nuovo periodo di declino, a causa di
una generale e inesorabile crisi del settore vitivinicolo, attenuata a livello
locale con il ricordato correlativo crescente interesse per lo sviluppo
dell’industria, soprattutto nell’area di Mercatale e Sovigliana ( solo nel decennio 1971-1981, per esempio,
gli addetti al settore dell’industria raddoppiano nell’intero comune di Vinci
fino a raggiungere la percentuale di oltre il 50% del totale, senza considerare
il terziario, a scapito del settore agricolo ridotto veramente ai minimi
termini (4-5%) (32)), le mostre e le fiere del “vino di Vinci” - nel
frattempo interrotte - tentano di ritornare negli anni settanta ai vecchi
lustri, nell’ambito della “Fiera di Luglio”, che chiaramente a seguito del
mutamento economico e sociale del territorio doveva assumere una nuova veste e
peculiarità, sulla scia di diverse attivitá promozionali, in parte poi
conglobate in vari progetti (basti pensare a quelli del Consorzio Immagine
Vinci).
La valorizzazione dei prodotti del
Montalbano veniva successivamente ripresa con una certa continuitá nell’ambito
di “Sapori e Colori del
Montalbano”, organizzata per la prima volta dagli anni
novanta, nel mese di novembre, in occasione del lancio del vino novello toscano
e delle prime produzioni del nuovo olio di oliva, storico prodotto di
eccellenza del Montalbano.
Nella Fiera di Luglio del 1979, caratterizzata di nuovo dall’esposizione
di stand delle imprese produttrici del vino locale, veniva tuttavia svolta la
prima edizione di una nuova manifestazione denominata la “Dama di Bacco”, felice connubio
fra la fantasia di due artisti, uno fiorentino e uno vinciarese, Mario Mariotti
e Alessandro Vezzosi, nel ricordo del genio leonardiano, con l’amore e la passione per la terra e il
vino di Vinci.
Mariotti,
1979
La Dama
di Bacco non è altro che il tradizionale gioco della dama “italiana” che si
svolge su un particolare “marchingegno
leonardesco”, ricostruito dagli artigiani di Piazza Santo Spirito di Firenze,
sulla base di un disegno di stampo leonardesco, rinvenuto misteriosamente in Via
Toscanella (la stessa via in cui lavorava Ottone Rosai) a Firenze.
La
manifestazione si è svolta a Vinci fino alla metá degli anni ottanta per poi
“emigrare” negli anni novanta a Firenze, al Palazzo dei Vini, mentre il
“marchingegno” finiva, di lí a poco, musealizzato, come opera d’arte
vivente, ludico-concettuale, nel Museo Ideale Leonardo da Vinci; salve
qualche successiva eccezione dimostrativa, per esempio, presso l’Universitá di
Firenze oppure per il torneo realizzato a Firenze nel 1999 dagli Amici
d’Oltrano del Mariotti, nel frattempo prematuramente scomparso.
Il torneo si
svolgeva secondo le regole della dama Italiana, seppure al posto delle
tradizionali pedine si faceva uso di bicchieri, i cosiddetti “gottini” toscani,
e del vino, bianco e ”vermiglio”, per
cui colui che “mangiava” la pedina altrui obbligava l’altro giocatore a berne
l’intero contenuto. Il tutto era allietato da musiche rinascimentali o da
proiezioni di immagini artistiche sui muri del paese. In origine, il torneo era
fra le fattorie del paese, che naturalmente si presentavano con un proprio
giocatore, di solito dai soprannomi piú vari e come premio avevano la
possibilitá di conservare per un anno lo storico “marchingegno”. La presenza di
un numeroso pubblico e di giornalisti fecero sí che la manifestazione assumesse
subito una rilevanza regionale e nazionale.
Il primo
vincitore della Dama di Bacco fu “Scardina” per le Fattorie di Giorgio Masi e
Cecconi Vieri, con la vincita pertanto del “vino del Piastrino”, che come decantava
uno dei “poeti” vincitori si distingueva perché “ Ho il cuore rosso di
colore rubino, sei tanto buono vino del Piastrino”. Il trofeo quell’anno fu addirittura portato
– come raccontano le cronache - in quel
di Marliana, sulla Montagna Pistoiese, con un torneo ripreso dalla Rai e
presentato da Mike Buongiorno.
La Dama
di Bacco è ritornata sulla “piazza” di Vinci nel 2007, con un nuovo torneo,
grazie ad uno sparuto comitato cittadino e ad un nuovo allestimento, speriamo
con una cadenza annuale, nell’intento di conservare lo spirito originario
dell’opera d’arte e la tradizione del “vino di Leonardo”.
Al nuovo
torneo possono partecipare “campioni” – con nomi rigorosamente di
battaglia - in rappresentanza non piú delle fattorie di Vinci ma dei “Territori
del Vino” ovvero zone o comuni particolarmente vocati alla produzione
vitivinicola, legati al ricordo oppure al passaggio sul territorio del Genio di
Vinci (quest’anno Birillo per Vinci,
Milla per Cerreto Guidi, Pirolo per Carmignano e, il vincitore,
Veleno per Montespertoli).
La novitá
della Dama del 2007 è stata quella che il torneo si è svolto in contemporanea
su due damiere : la prima quella “storica” in marmo del marchingegno
leonardesco della Dama di Bacco, e la seconda su una apposita “damiera di
piazza”, di 8 metri per 8, con personaggi viventi, al posto delle pedine,
che riproducevano le mosse dei giocatori con i gottini. Le “squadra delle
pedine viventi” doveva indossare, secondo il nuovo regolamento, una DIVISA
caratteristica del proprio paese di origine ovvero dovevano essere accomunate
da un identico “carattere”, a scelta e discrezione dei partecipanti, con
quattro Dame, ovvero quattro personaggi “diversamente e riccamente”
vestiti ( nel 2007, per Vinci “i bandaioli”; per Cerreto Guidi “
i figuranti di Porta Caracosta”, per Carmignano “ i monelli rosso-blu di
Leonardo” e per Montestertoli “ i contadini della cinquantesima edizione
della Mostra del Vino). L’uscita dal gioco della pedina mangiata o”saltata”
poteva essere sottolineata da rumori o suoni mediante strumenti a libera scelta
da parte dei concorrenti della squadra vincente ( quest’anno il commento
musicale piú originale e divertito è stato senz’ombra di dubbio quello della
Filarmonica Leonardo da Vinci di Vinci).
L’altra
grande novitá del 2007 è stata il ritorno degli artisti del Montalbano a
realizzare una loro opera d’arte collettiva a Vinci, intorno al tema del
vino e della campagna vinciana. Infatti le 32 tessere bianche che componevano
la damiera di piazza, di oltre 60 mq, venivano “dipinte”o comunque
“reinventate” dagli artisti e dai giovani di Vinci e del Montalbano,
realizzando originali quadri con vari materiali sul tema “Vinci e il Vino di
Leonardo”. Tale incontro avveniva nel ricordo di Mario Mariotti, che amava
definirsi un “ArtiGiano” piuttosto che un artista, o meglio un “Giano delle
Arti” – come sottolineavano gli amici Alessandro Vezzosi e Andrea Granchi
- una figura multiforme e polivalente
- come le tecniche scelte dai tanti ArtiGiani della Dama del 2007 - che
riusciva a passare dai materiali piú
poveri e tipici del fare, come la creta,
la terrecotta o lo stucco a quelli piú spregiudicati e sofisticati, come
gli audiovisivi e la fotografia. Molti artisti locali e gli amici fiorentini d’Oltrano di Mariotti hanno
risposto all’invito, oltre ogni piú rosea aspettativa, nella speranza che Vinci
possa tornare ad essere una sorte di crocevia “naturale” fra poeti, scrittori e
artisti, nella tradizione dei ricordati salotti ottocenteschi del Martelli o
del Fucini, delle mostre d’arte estemporanea organizzate nella campagna di
Vinci negli anni sessanta, degli incontri internazionali con gli studenti
della Scuola di Artigianato di Colonia
a diretto contatto con i contadini di Vinci, sempre e comunque legati al tema
della “cultura e tradizione della terra ” di Vinci.
La Dama di
Vinci, realizzata dagli artisti del Montalbano, con la libera reinterpretazione
dell’ “ arte del vino”, è diventata ben presto una sorta di naturale biglietto
da visita del paese, prima come mostra di “arte diffusa”, scomponendosi
nelle varie tessere distribuite nei negozi del paese in occasione della Fiera
di Luglio, oppure ricomponendosi per articolate mostre a Rimini o Empoli, con
lo spirito del motto di Leonardo che quando vi é “il vino bono, l’acqua
avanza in tavola”, pur dovendo
prendere atto che l’altra piú famosa citazione
per cui “ molta felicitá sia
agli homini che nascono dove si trovano i vini buoni” in realtà è in realtá
lo “slogan” di ispirazione leonardesca di un abile esperto di marketing anche
se, di fatto, esprime un concetto
sentito e condiviso da molti.
Le recenti
riscoperte di antiche tradizioni, seppure talvolta liberamente interpretate,
dal Volo di Cecco Santi, ai Sapori e Colori del Montalbano fino al “gioco
d’artista” della Dama di Bacco, fanno intendere come Vinci, al di lá dei molti
difetti dei vinciaresi, stia vivendo un suo piccolo “rinascimento”, che non
necessariamente si deve intendere limitato ad un periodo storico, bensí ad un
moto dell’animo, di coloro che hanno amato queste terre, Leonardo insieme ai
suoi contemporanei, e che oggi rivivono nelle parole e nelle gesta di coloro
che ancora sanno coltivare questi paesaggi, veri testimoni del messaggio e dei valori del rinascimento
toscano. E Vinci non è stata mai cosí vicina al suo “cuore” pulsante e vitale,
se è vero - come sostenevano gli
antichi – che la memoria alloggia, non tanto nella mente, ma nel cuore degli
uomini.
Vinci, Ognissanti 2007 Nicola
Baronti
Si ringraziano per la disponibilità delle fotografie
Alessandro e Agnese Vezzosi, Masi Rossetta e Andrea Parri, Eredi Fondo
Fotografico Baronti Attilio, Famiglia Baronti Lanfranco
gangalandi@gmail.com
(1) Repetti
“Dizionario Geografico della Toscana, Firenze,1833 voce Vinci
(2) Mauro e Sandra Ristori : Le centurie
rimane nel medio valdarno. Le centurie di Vinci in L’universo, Firenze,1991
n.2 Pagg. 202-209; A. Vezzosi Il sigillo dei Vinci, Firenze, 1989
(3) A. Vezzosi Il
Vino di Leonardo Morgana 1992
(4) A. Vezzosi Il vino di Leonardo, cit.
(5) cfr recentissimo saggio di L. Tanzini Alle origini della Toscana Moderna. Firenze
e gli Statuti delle comunitá soggette dal XVI secolo al XVI secolo, Olschki, 2007
(6) A. Latini Lo statuto del Comune di Vinci, San Miniato, Accademia degli Euteleti,
fasc. 1, 1922; Giovanni Leporatti Lo
Statuto del Comune di Vinci del 1418 Tesi
di Laurea Facoltá di Giurisprudenza Biblioteca Leopardiana; Paolo Santini Diritto e vita sociale negli statuti di Vinci, Vitolini e Cerreto
Guidi tra Trecento e Quattrocento
in Microstoria Gen?Feb. 2006 n. 45
(7) vedi anche G.C.Romby Territorio e insediamenti tra Montalbano e
Valdarno in Vinci di Leonardo, Firenze, 2004, pag, 21 –24.
(8) Alessandro Fornari : Il
vino in Cultura Contadina in Toscana, Firenze, Vol. III, pag. 190
(9) L. Bartolesi, M. Marchetta, A. Pretelli, A.
Vezzosi Vinci in Bollettino degli Ingegneri, Firenze n.
3,1980, pagg. 45-53; A. Vezzosi Il
sigillo dei Vinci, cit.
(10)
A. Vezzosi, Il vino di Leonardo, cit.
(11)
Renzo Cianchi, Giovanni da Vinci fratello di Leonardo oste e beccaio sulla piazza
del Mercatale,Vinci, 1977
(12)
R. Cianchi Ricerche e documenti sulla madre di
Leonardo, Firenze, 1975 pag. 13 e
sgg
(13)
Luca Moroni: Milano e il vigneto di Leonardo, Milano, 1999 in www.lucamoroni.com
(14)
Bruno Nardini Vita di Leonardo, Firenze, 1974 pag. 270 –272.
(15)
Dino Salvo Salvi Orbignano e le famiglie storiche della sua
Comunita, Vinci, 1983
(16)
A. Vezzosi Il vino di Leonardo, cit ; G. Nannetti Le Ville in Leonardo di Vinci, Firenze, 2004 pag. 280 nota 83
(17)
A. Vezzosi, Il vino di Leonardo, cit.
(18)
G. Nannetti: Le Ville
in Vinci di Leonardo, cit., pag. 260
(19)
Dino Salvo Salvi: Itinerari sul Montalbano, Pistoia 1982 – pagg. 59-63
(20)
C. Lessona “ I macchiaioli di Renato Fucini” Introduzione alla omonima Mostra in G.
Nannetti, cit. pag 271, 283
(21)
G. Uzielli – T.
Signorini 1872 Gita a Vinci,
Fucecchio, pag. 20 e pag.. 28
(22)
Guido Biagi, I passatisti, Firenze SAOC. Ant. Edit. La Voce. 1923)
(23)
Lettera 46 di T.
Signorini a Gustavo Uzielli del 12.05.1872 del Fondo Uzielli. Cassetta 56, n
numero 852, Biblioteca Nazionale di Firenze
(24)
Elena Testaferrata Nello specchio del Genio, Fucecchio, 2001, pag. 40; S. Bietoletti Vinci, ideale fonte d’ispirazione per gli amici pittori di Renato
Fucini, in Vinci di Leonardo, cit,, pag. 317 e sgg
(25)
Antonio Pagliai Cecco Santi, il vate di Lecore, in
Contatto – BCCC Signa, Anno I, n. 1 pagg. 13-14
(26)
A. Vezzosi Montalbano Itinerario d’autore, p. 53
(27)
Biblioteca
Leonardiana di Vinci – Fondo Quirino Giani La terra natia, 1 e 2
(28)
cfr. il Fondo
Giani è stato pubblicato seppure per ampi estratti in : M. Bruschi “Confini Leonardiani” Ser Piero e le
proprietà dei “Da Vinci” nella parrocchia di S. Lucia a Paterno. Nuovi
documenti, Pistoia, 2006, pag. 60
–61).
(29)
P.Santini – M.
Minacci Vitolini Mille anni di
storia all’ombra del Campanile,
Vitolini, 2006, pag. 209 e sgg.
(30)
Dino Salvo Salvi Itinerari sul Montalbano Pistoia, 1982 pag. 36-38
(31)
Stefania Marvogli Vinci, meta di viaggio in Vinci di Leonardo, cit.,
(32)
AA.VV. Immagine Vinci, Firenze,
1989, pagg. 21 – 45
Il Carro di Sant’Amato, 1934
Da A. Vezzosi, Il Vino di Leonardo, Firenze